venerdì 22 gennaio 2016

THE REVENANT
Primum vivere.
E' su questo che si sviluppa il teorema e la storia di uno dei film più belli che abbia mai visto.
Di Inàrritu non  so delineare i limiti: quando vidi Birdman pensavo che fosse un arrivo, e invece adesso so che era solo una splendida partenza.
Anche con 2001: A Space Odyssey pensai che il Cinema fosse concluso e invece, adesso...
Chi siamo di fronte al dolore, alla violenza, alla morte?
Perché continuare?
Per cosa lottare?
Per quanto decidere di andare avanti, e vivere?
Perché? Per chi?
Un uomo che ha perso tutto, che ha perso gli amori più grandi, continua - fortissimo e disperato - a respirare, a lottare, a non chiedersi nulla e a chiedersi tutto insieme, senza avere nessuna risposta se non se stesso, per quel che è, e ciò che rimane.
Mangiare, bere, uomo, donna recitava il titolo di un bellissimo film Taiwanese: l'essenza dell'Essere.
C'è la carne di cui siamo fatti, in questo film. C'è il nostro essere animali e Socrate nello stesso corpo.
C'è la vita che non si fa domande, ma risponde ad un istinto di sopravvivenza, qualunque sia il dolore. Nonostante il dolore.
Revenant siamo noi, e non a caso alla fine ci guarda negli occhi.
Tecnicamente assoluto, esteticamente dolcissimo, The Revenant va oltre il cinematografico e diventa pittorico e poi, ancora, diventa teatro per tornare Cinema in forma di thriller.
Arriverete esausti, alla fine, perché è un film folle, e come tutto ciò che è folle ci parla di istinto e passione, senza barriere.
Di Caprio interpreta Hugh Glass, che in inglese significa vetro, di vetro, bicchiere, occhiale. 
Freddo, ma anche trasparente, come l'inverno e l'anima nei quali si muove, e prova a sopravvivere.
Glass, ma noi potremmo anche chiamarlo Ulisse, Raskol'nikovIshmael.



lunedì 11 gennaio 2016

La quinta ora.



La quinta ora.




1.

La prima ora.


Nel caldo afoso di luglio il grosso camion frigorifero - verde, come i dinosauri nei cartoni animati - non può andare né avanti né indietro nel grande parcheggio del supermercato, e la sua cabina di guida, girata leggermente sulla destra, sembra dargli un’espressione sconsolata.
Non riesce a curvare per uscire dal parcheggio perché è pieno di automobili in ogni spazio, tanto che alcune, pur di esserci e trovare posto, sono parcheggiate di sbieco con due ruote sul marciapiede. Altre, in posti impossibili come gli angoli o gli spigoli, sembrano essere state messe lì per gioco dalla mano di un bambino gigante.
Una in particolare, una Citroën gialla, è posteggiata sulla curva verso l’uscita, sotto i cartelli di divieto di sosta.
Le altre automobili probabilmente riuscirebbero a passare, ma il camion è troppo grosso e troppo lungo per curvare in quel poco spazio rimasto. E non può nemmeno tornare indietro, in retromarcia verso l’entrata, perché un’altra auto, una Fiat blu, ostruisce lo spazio di manovra nella curva dalla parte del supermercato.
Il clacson del camion suona come la sirena delle grandi navi quando arrivano nei porti, ed è talmente forte da coprire tutto il piccolo quartiere della Barona, a sud di Milano.
La prima volta che il camionista lancia nell’aria quel lamento, molti nelle strade si voltano chiedendosi se lì, alla Barona, col tutto quel caldo, sia arrivato anche il mare.
Al vecchio signor Luigi, che ormai non esce più, quel suono ricorda gli anni della sua giovinezza in Marina, tanto che nel piccolo e grigio salottino di casa si alza all’improvviso, staccandosi finalmente dalla poltrona ortopedica dopo tanto tempo, e sua moglie Marisa, quando lo vede così, pendente ma pur sempre sull’attenti e con la mano alla fronte nel saluto militare mentre la sirena del camion guaisce, pensa che deve essere arrivata per lui l’ultima ora, l’ultimo momento di ricordi nebulosi in cui, come spesso capita, ripetiamo il gesto più ancestrale nella nostra vita prima di lasciarla per sempre.
Invece, il camion smette per un secondo di lamentarsi e il signor Luigi, in quell’improvviso silenzio, scarabocchia un peto nei pantaloni laschi e lisi del pigiama per ricadere tonto sulla poltrona, così Marisa rimette la faccia stanca e torna a girarsi verso i fagiolini, riprendendo a pulirli per la cena.
In quell’istante dal supermercato esce Gideon Baba, l’uomo addetto alla sicurezza.
Si avvicina al camion per vedere cosa sta succedendo.
Gideon, originario del Ghana, è un uomo dalla pelle particolarmente nera, alto quasi due metri, bello e gigantesco, incapace di arrabbiarsi e di offendere chicchessia. Guarda la Citroën gialla parcheggiata proprio tra i due paletti segnaletici di divieto di sosta, peraltro messi da lui. Su un foglietto scrive la targa.
Si rivolge al camionista, nascosto e misterioso dietro i vetri oscurati; rintanato nella cabina, protetto dall’aria condizionata. Gideon, che è l’unico a non sudare in quel parcheggio, urla verso i vetri scuri.
“Vado a fare annuncio” dice nel suo italiano senza articoli, portando la mano alla bocca come fosse un microfono.
Il camion non risponde.
Gideon sa che non troverà il proprietario dell’auto. Il supermercato dentro è piuttosto vuoto e pochissime, tra le macchine parcheggiate, appartengono davvero ai clienti. Il parcheggio viene per lo più utilizzato dagli impiegati degli uffici vicini per posteggiare l’auto tutto il giorno, perché gli spazi nelle strade non sono più sufficienti. E poi, con i soldi arrivati per l’Expo, il comune sta rifacendo tutti i marciapiedi e impiantando il teleriscaldamento, le strade sono bloccate dai lavori e gli spazi per parcheggiare ancora più ridotti. Ma Gideon deve provare, è parte del suo mestiere e in fondo del suo carattere, così rientra nel supermercato passando sotto la lama fredda dell’aria condizionata e si dirige verso Sabrina, la responsabile alle casse e informazioni.
Sabrina si schiarisce la gola, come ogni volta prima di sentire la sua voce al microfono espandersi per tutto il supermercato.
“Il proprietario della Citroën targata Milano aerrenovecinquenoveemmeacca è pregato di spostarla, grazie. Ripeto: Il proprietario della Citroën targata Milano aerrenovecinquenoveemmeacca è pregato di spostarla, grazie.”
Chiude il microfono alzando le sopracciglia e mettendo su un’espressione austera perché Sabrina si sente sempre un po’ una della TV, dopo gli annunci.






2.

La seconda ora.


Nessuno arriva a spostare la macchina.
In silenzio, nella controra del pomeriggio estivo, il camion rimane fermo in fondo al parcheggio con la sua espressione offesa, lasciando sfrigolare il motorino che tiene accese le celle frigorifere e l’aria condizionata nella cabina di guida.
Gideon guarda il camion da dietro i vetri dell’entrata del supermercato.
Alle sue spalle, i ti-tic elettronici delle casse leggono i codici a barre dei prodotti. A quest’ora del pomeriggio il silenzio è tale che si riesce a sentire il fiato dell’aria condizionata uscire dai bocchettoni.
Poi il camion urla, esasperato, bloccato, esausto; ostaggio di un diffuso menefreghismo, squarcia il silenzio improvvisamente facendo sentire la sua sirena da nave nel porto, e il camionista tiene il fischio più a lungo possibile, in una esasperazione che sicuramente sveglia il quartiere che sonnecchia, a quest’ora dopo il pranzo.
“Ohhhssssignore! Mi ha stressato quello!”
Sabrina sbotta uscendo dal box informazioni e lasciando che le due mezze porte dondolino, come nei film, quando nel saloon entra il cattivo.
“Gideon, digli di smetterla che tanto non arriva nessuno! Cosa suona a fare?”.
Sabrina ha quarantatré anni, una figlia , un divorzio e due tatuaggi di cui uno è il nome della figlia -Luna - e l’altro una luna. Porta i capelli lunghi e neri raccolti in una coda, con una ciocca tinta di rosso vermiglio che scende a lato del viso. È alta un metro e sessanta. Un metro e sessantotto oggi, con le zeppe. Gideon si gira a guardarla dal suo metro e novantasette, come le giraffe quando nella giungla sentono passare qualcuno, laggiù in basso.
Con calma africana che porta sempre con sé anche un po’ di dolcezza, si rivolge a Sabrina che invece ha incrociato le braccia.
“Chiamiamo vigili per carro attrezzi?”
Sabrina alza lo sguardo verso Gideon con l’espressione tipica degli italiani d’oggi: un senso caustico di rassegnazione nel sapere che nulla cambia, qui. Né vuol cambiare.
“Non verranno, Gideon. Ma tu, se vuoi, chiamali.”
“Sono i vigili” sottolinea lui, e la risata di Sabrina si continua a sentire fin dietro la porta del bagno, dove lei si chiude per fare pipì.
Gideon va al banco informazioni e prende il telefono. Compone il numero e rimane in attesa. La voce registrata dice di attendere, ma di non mettere giù perché un qualche sistema non meglio chiarito ha messo la telefonata di Gideon in una priorità acquisita. Una specie di fila, insomma.
Gideon è nato a Prampram, un villaggio di pescatori a sud della costa, non lontano dalla grande città di Accra. Ha venticinque anni ed è venuto via dal Ghana a diciassette.
La notte prima di partire per il lungo viaggio attraverso tutta l’Africa fino al mediterraneo, Jaineba, sua mamma, l’aveva passata ad accarezzarlo e a guardarlo mentre lui dormiva ad occhi aperti fissando la luna, più grande e più ocra della nostra, dice.
Non si erano detti niente, né prima né dopo. Gideon era partito incosciente ed eccitato come lo sono i ragazzi prima di capire la vita, e quando, sette mesi dopo, era arrivato sulle coste italiane, spiaggiato di notte come un tonno sfinito, pesava dieci chili meno ed era di molti anni più vecchio. Aveva attraversato il deserto, era stato taglieggiato dai trafficanti in Libia, era quasi morto su una barca nel Mediterraneo. Eppure ci credeva, nonostante la bocca piena di sabbia. Allora, come oggi, credeva nella vita e nel cambiamento. Credeva nelle persone che abitano il mondo. Credeva nel merito e nella volontà, unico patrimonio possibile per chi non ha né nome né danaro; Jaineba glielo aveva insegnato da sempre. Per questo a Prampram, in tutti questi anni lontano da lui, lei non ha mai pianto.
Suo figlio è un uomo pieno di fiducia e questo lo rende forte e buono.
È quindi con molta calma e fiducia che Gideon aspetta al telefono la sua priorità acquisita, che arriva dodici minuti dopo.
Una voce femminile, brusca, risponde: “Dica”.
Gideon si è quasi addormentato, ma risponde velocemente: “Chiamo da supermercato di via Pestalozzi. Abbiamo la macchina in parcheggio che no fa uscire camion di alimentari.”
“Lei è?”
“Gideon Baba, responsabile sicurezza.”
“Qual è il nome e qual è il cognome?” chiede sbrigativa la voce femminile.
“Gideon nome, Baba cognome.”
“Signor Baba il parcheggio interno è vostra proprietà, non è una superficie pubblica. È vostra responsabilità gestirlo. Lei cosa vuole da noi?”
“Spostare macchina con caro attrezzi.”
“Ma non possiamo intervenire” dice la voce femminile dall’altra parte del telefono, “lei è il responsabile della sicurezza e potrebbe dirci di non toccare le macchine dei clienti.”
“Ma io vi chiamo per fare quello...” dice Gideon, smarrito.
“Ma potrebbe dircelo.”
Gideon non capisce. Com’è possibile che proprio lui chieda l’intervento dei vigili e poi sia lui stesso a impedirlo. È da pazzi pensarlo.
Prova a spiegarsi. “Ma io...”
“Capisce?” incalza la voce.
Il camion, nel parcheggio, tuona: “VUUUUUUUUUUUUUUUUUUUU”.
Sabrina tornata dal bagno allunga il braccio verso Gideon.
“Passameli. Pronto!” dice Sabrina col suo tono pugliese che non prevede repliche.
“Chi parla?” chiede confusa la voce femminile al telefono, sentendo tutto un altro tono.
“Sono Sabrina Santoro responsabile casse e informazioni del supermercato. Possibile che siamo costretti a lavorare con questo casino? Le sembra possibile che quel cristiano di camionista stia chiuso da due ore ad aspettare che un deficiente esca stasera dall’ufficio per spostare la macchina e lasciarlo tornare a casa? Le basta?”
“Non ho parcheggiato io la macchina” risponde la voce al telefono.
“Ma non è nemmeno lei che la sposta, eppure è il suo mestiere!”
“Le ricordo che sta parlando a un pubblico ufficiale”.
“Mi dimostri che lo è spostando la macchina. Non ho peli sulla lingua, io. E le mie multe le ho pagate tutte” conclude mentre Gideon con le mani le fa cenno di stare calma. E intanto una piccola folla di clienti in pantaloncini e ciabatte la osserva con ammirazione, in particolare la signora Angela: “S’el g’ha resôn el g’ha resôn, la Sabrina.”
“Vediamo cosa possiamo fare” dice la voce al telefono, “Parlo con la pattuglia in zona. Ma rimane il fatto che non è su suolo pubblico.”
Ma Sabrina ha già ripassato la cornetta a Gideon che gentilmente ringrazia la voce al telefono.
“Allora aspettiamo carro attrezzi?” precisa Gideon.
“Le mando una pattuglia.”
“Grazie.”
Ma la voce ha già chiuso la conversazione mentre lui, con la coda dell’occhio, vede entrare Enzo.



































3.

La terza ora.


Enzo si muove barcollando, con la testa sempre ubriaca, parlando ad alta voce col suo forte accento milanese e, ogni volta che entra al supermercato per rubare una birra, cerca la rissa con Gideon perché non lo sopporta. Gli sta antipatico, o forse lo invidia, lui così alto, così a posto. Lo chiama “Teresina” che Gideon non ha mai capito il perché.
“Ti piglia per il culo” gli spiega Sabrina che comunque ad Enzo ha dato un paio di scappellotti e una volta, ma fuori dal supermercato, gli aveva anche tirato sulla testa un’infradito. “È un drogato e pure figlio di papà” continua Sabrina, “e tu a quello, grosso come sei, gli dovresti menare, altro che prenderlo e portarlo fuori da buon samaritano.”
“Cos’è samaritano?” chiede Gideon.
“Eh sì vabbè, è ‘o cuggino dell’indiano” dice Sabrina, tornando a scartabellare le sue carte degli ordini e sospesi.
Così Gideon segue con lo sguardo Enzo senza distrarsi mai.
Bermuda, zainetto, maglia sporca. Sandali e piedi neri, una cicatrice lunga venti centimetri sul braccio destro, magro, ma con la pancia gonfia, piccolo e matto, Enzo canta oppure parla, ma sempre a voce alta, spaventando i clienti anziani del supermercato dove entra solo per rubare le bottiglie di birra, che poi nasconde nello zaino.
“Aaahhh... che bella scorreggia che ho fatto!” dice ad alta voce.
Poi, dallo scaffale, di birre ne prende tre, di quelle grandi.
“Non dare fastidio a clienti” dice Gideon, raggiungendolo agli insaccati.
Enzo non risponde. Come un topo che scappa si limita a guardarlo di sbieco, oscillando, per poi spostarsi lentamente verso i freschi.
Gideon rimane a fissarlo.
Ai legumi e sottaceti Enzo riprende a cantare.
Gideon lo raggiunge.
“Non si può cantare, qui. Dai fastidio. Prendi le tue cose e vai a cassa.”
“Non ho capito, Teresina, cos’è che hai detto? Vai a casa?”
“Vai a cassa” risponde Gideon con gli occhi furiosi e tristi di chi prova imbarazzo a litigare, “Ho detto vai a cassa”.
“Eh, ma devi imparare l’italiano. Non si capisce un cazzo di quello che dici, lo sai?” Enzo traballa un po’, come se camminasse sulla gommapiuma.
Fre ha k) na wo ha adwene”, gli risponde Gideon.
“Eh? Cos’è? Come cazzo parli?” chiede Enzo con aria stupida.
“Hai capito che cosa ti ha detto questo signore, sì o no? Vai alla cassa, paga e non rompere più i coglioni.” Dico io.
“Signore, si calmi!” si affretta a dire Gideon, “Ci penso io, qui” mentre Enzo, preso di sorpresa, non capisce come quel compatriota bianco, dietro al carrello, vestito elegante e con la faccia da americano possa aggredirlo così, all’improvviso, e prendersela con lui e non con Gideon.
“Hai rotto i coglioni a me, figurati a lui, che se fossi io grande e grosso com’è, a quest’ora eri già sdraiato faccia a terra sul marciapiede”.
Funziona.
Io sono così: non sopporto gli imbecilli e i soprusi.
Enzo mette giù le birre ed esce senza dire nulla.
Mi avvio alla cassa, pago ed esco dal supermercato e da questa storia sotto lo sguardo di Gideon che, un attimo prima che io scompaia dietro la colonnina delle pile usate, mi è parso che sorridesse.
Volto l’angolo e vedo in fondo al parcheggio il camion, che sembra essersi arreso.
Gideon esce dal supermercato poco dopo.
La pattuglia ancora non si vede, e non ne sono passate sulla strada, fosse anche per sbaglio. Ma sarà questione di poco, forse minuti, Gideon ne é sicuro.
Attraversa in diagonale tutto il parcheggio stipato di automobili. Lentamente, elegante nel suo vestito nero. Arrivato a non più di due metri di distanza dal camion, dice ad alta voce: “Ho chiamato vigili. Mandano pattuglia.”
La porta della cabina ha uno scatto, si apre.
Facendo attenzione a dove mette i piedi e le sue gambe corte, il camionista esce dalla cabina e scende sull’asfalto rovente guardandosi intorno, mentre si tira su i calzoncini dai quali deborda la pancia tonda, insaccata dentro una canottiera bianca intonsa. Si gratta sotto la gola la barba di un giorno e dalla tasca dei calzoncini tira fuori un pacchetto di Diana Blu.
“Fumi?” chiede a Gideon.
“No” risponde quasi scandalizzato Gideon, allungando il lungo braccio verso il camionista, il quale si accende la sigaretta e, guardando in alto il sole delle due del pomeriggio, dice: “Non c’è un filo d’ombra”.
Ha la testa glabra, il naso a patata e uno sguardo concentrato, attento, da allenatore di calcio.
Guarda dal basso verso l’alto Gideon e deve socchiudere gli occhi, mettendosi una mano a coprirli, che il sole è dritto verso di lui.
“Ma quanto sei alto?” chiede.
Gideon ridacchia, spalancando il suo sorriso bianco. Come gli dice sempre Sabrina: “Sei vigliacco te, con quel sorriso.”
“Iancu” dice il camionista, allungando la mano verso Gideon, che gliela stringe. “Gideon, addetto sicurezza” risponde, “Ho chiamato vigili per carro attrezzi. Dice che manda pattuglia.”
Iancu si mette a ridacchiare. Nel farlo il riso si confonde in gola e la risata finisce in tosse e la tosse in catarro: “Non verranno mai.”
“Ma sì” risponde Gideon, “è vigili.”
Iancu lo guarda, un occhio chiuso e un occhio no, con una smorfia ironica. Continuando a tenere la mano sugli occhi per ripararsi dal sole per poterlo guardare in faccia, gli chiede: “Davvero ci credi? Quanti anni hai?”
“Venticinque” risponde Gideon.
“E da dove vieni?”
“Ghana” e lo dice con orgoglio, come sempre, “Tu sei italiano?”
“Ma se mi chiamo Iancu! Sono rumeno, ma vivo in Italia da ventidue anni” sbadiglia guardandosi intorno.
“Stamattina mi sono svegliato alle tre, alle quattro ho fatto il carico a Torino e adesso eccomi qui, bloccato in un parcheggio con altre tre consegne e due ore per tornare a casa.”
Iancu si gira verso l’auto parcheggiata storta, sulla curva.
“C’è anche il cartello di divieto di sosta” dice sconsolato, “ma chi se ne frega, eh?”
Poi si volta verso Gideon.
“Italiani. Pensano sempre di essere da soli, di essere gli unici in giro.”
Gideon lo guarda senza capire.
“Io non posso parlare per il mio Paese, parlo per me, ma qui tutti fanno quel cazzo che gli pare. In Ghana fanno quel cazzo che gli pare?”
“Oh sì!” risponde Gideon sorridendo.
Iancu tira dalla sigaretta, poi chiede: “Ma in Ghana i vigili arrivano?”
“Oh sì” risponde ancora Gideon, “e anche qui arrivano” dice col suo bel sorriso.
“Ma va’...” dice Iancu, “D’estate, alle due, un caldo che si muore. Per un camion incastrato? Non arriveranno mai.”




4.

La quarta ora.


“Sono venuto con barca, attraversando tutta Africa e il mare. Mi hanno picchiato, aggredito, ferito, ma sono qui e mi piace la vita. Avrò figli, avrò moglie. Io so. In Africa diciamo: se vuoi andare lontano, corri insieme a qualcuno.”
Hanno trovato un piccolo spazio dietro al camion in cui stanno riparati, all’ombra, e uno strano gioco di pareti crea una leggerissima corrente d’aria che fa respirare. Iancu fuma le sue Diana Blu mentre Gideon, com’è sua abitudine, giocherella, rigirandolo sul dito, con un anello d’argento che è appartenuto a suo padre e che gli è stato donato da sua madre Jaineba prima della sua partenza.
“Hai figli?” chiede Gideon.
Iancu sta guardando chissà cosa per terra, ma alla domanda alza lo sguardo verso Gideon sbuffando il fumo fuori dalla bocca, e i suoi occhi stanchi sono pieni di forza e di orgoglio.
“Due” risponde Iancu, “Molto bravi”.
Nel silenzio ovattato dal caldo, la sirena di un’ambulanza passa chissà dove e un cane, forse svegliandosi di colpo, da qualche parte in un cortile lontano, si mette a ulularle dietro.
“Il grande studia ingegneria, mentre la piccola finisce il liceo quest’anno. Studiano, studiano, studiano. Quando non volevano di studiare io e mia moglie non li abbiamo sgridati. Mai.”
Iancu prende un ultimo tiro di tabacco e lancia lontano la sigaretta finita con il medio e il pollice, mentre Gideon ne segue la parabola.
“Mai sgridati perché è inutile” dice Iancu mentre fissa la piccola brace della sigaretta spegnersi sull’asfalto, “Spaventi i ragazzi e i ragazzi che si spaventano diventano uomini fragili. Io e mia moglie se nostri bambini non studiavano a loro facevamo vedere le nostre mani. Solo le mani. Abbiamo tutti e due le mani gonfie e non riusciamo più a togliere tutta la polvere, fa parte della pelle ormai. Ha funzionato: mio figlio ingegnere, mia figlia avvocato, e quando ci siamo incontrati, io e mia moglie Kira un giorno che nevicava a Dobroesti, non avremmo mai immaginato tanta fortuna per noi”.
Iancu distoglie lo sguardo. Gideon per reazione guarda per terra e casualmente vede passare tre formiche che portano una briciola.
“L’esempio che gli dai è tutto. Loro vedono il padre alzarsi di notte per guidare il camion. Vedono la madre piegata sulle verdure perché mia moglie lavora da un fruttivendolo. A volte arriva a casa con le mani piene di spine per i carciofi. E non dice niente. Questo è importante. I ragazzi lo sanno.”
Poi gira lo sguardo verso Gideon: “Ce l’hai una donna da sposare?”
“No” risponde Gideon.
“Eh dai! Guarda che giovanotto sei. Dai, trova una ragazza, fai famiglia” ride.
“Avevo ragazza, ora morta. Ma verrà moglie e faccio famiglia” prosegue Gideon, “Mille passi cominciano sempre da uno. Per questo non ho paura e non piango più.”
Iancu prende dal pacchetto un’altra sigaretta, ma poi decide di non accenderla e la rimette a posto. Gideon guarda l’ora.
“Ma dove vigili?” dice tra sé e sé.
“Non verranno” risponde Iancu, “Non hanno mai pensato di venire. È già successo altre volte.”
“Ma sono vigili” continua Gideon, “Vigili non dice bugie.”
Iancu scoppia in una risata: “Ma davvero ci credi? Davvero?”
Gideon lo guarda mentre, seduto sul muretto, le ginocchia che quasi gli arrivano in bocca, non sa cosa rispondere.
“Italia mi ha dato tanto” dice Iancu, “ma solo perché io avevo davvero poco. Ho imparato che questo non è un Paese normale. In un Paese normale non nasce mafia.”
Iancu si passa un braccio sulla fronte. Suda.
“In questo Paese gli altri non esistono e non esistono regole. Ognuno pensa a sé e noi siamo e sempre saremo solo stranieri per loro. Non te lo dimenticare. Che poi c’è straniero e straniero. C’è straniero di serie A che è inglese, francese, tedesco. Con loro li italiani si sentono piccoli. Poi c’è straniero di serie B: io, o albanese, o moldavo e con loro li italiani si sentono Giulio Cesare. E poi hanno anche stranieri di serie C.”
“Chi sono?” chiede Gideon.
“Tu. Quelli neri e grossi come te” dice Iancu e scoppia in una risata, “Credimi” continua, “impara dagli italiani: appena puoi, se puoi, scappa da qui. Qui non cambia niente e i tuoi vigili non arriveranno mai. Questo non è un posto per giovani o per stranieri. Italia è un paese per furbi o per turisti russi.”
Il motore di un’auto si accende. Iancu e Gideon si alzano simultaneamente e fanno il giro del camion per vedere chi è. La Fiat blu che ostruiva il passaggio sul retro fa manovra ed esce dall’entrata. Iancu si tira su i pantaloni e apre la portiera del camion.
“Cosa fai?” chiede Gideon.
Sale sulla cabina e dall’alto dà un’occhiata tecnica al parcheggio. Guarda la curva e il cancello d’entrata. Fa dei calcoli mentali che nessuno può sapere se non lui e poi, con uno sguardo furbo, dice a Gideon: ”Esco in retro! Bloccami le macchine che entrano” e accende il camion che, nel caldo, scatarra e mugugna.
Gideon è sulla strada, fuori dal grande cancello. Aspetta che il culo del grosso camion verde di Iancu si sporga sull’entrata per bloccare le macchine, poche in verità, che passano a quell’ora calda quando mezza Milano è già in mutande al mare.
Dall’altra parte della rotatoria passa una macchina dei vigili, ma gira subito a destra, nemmeno ci prova a venire verso il supermercato, e Gideon capisce che è vero, ha ragione Iancu: non verranno mai. E gli sale la rabbia, un nervoso al quale non sa dare un nome, quella specie di rancore misto a un senso di ingiustizia e di rivalsa che, ricorda, lo ha fatto andare via da casa e ora se lo ritrova qui, ancora, come se avesse viaggiato con lui tutto questo tempo. 
Qui che, Gideon lo sa, potrebbe essere il giardino del mondo.
Qui, dove se soltanto le persone tenessero conto degli altri, di tutti gli altri, sempre, allora potrebbero vivere bene immaginando addirittura di avere un futuro ricco, sotto questo sole dolce che non è come quello di Prampram.
Il sole qui accarezza i pomodori e non brucia la terra.
Quanta ricchezza, madre. Quanto spreco, pensa.
Iancu sgasa, mette la prima, avanza di un metro che sembra saltare, e poi rimette la retro e avanza verso il cancello, disarticolando con mestiere il camion come fosse un serpente tra i rovi.
Gideon si mette in mezzo alla strada e lascia passare un motorino, ma blocca una macchina che arriva da sinistra e lo manda a cagare.
Iancu si muove con destrezza e Gideon non capisce come possa vedere, come possa, con quel camion gigante, passare a tre centimetri dagli specchietti delle auto e non romperli. Ma ce la fa. Lo fa. È bravo. Talmente bravo da fargli venire voglia di diventare un camionista, di prendersi cura di un mestiere vero, e di sé.
Sulla strada il camion si mette storto tra le auto parcheggiate e i due marciapiedi. Iancu va avanti e indietro, a piccoli passi sembrerebbe, fino a mettersi sempre più dritto. Quando ci riesce, dà due colpi di gas, lascia che il dinosauro ruggisca e poi si quieti, ma non mette la prima. Fa una cosa strana, invece, inaspettata anche per Gideon che adesso è in piedi sul marciapiede, dritto come un lampione, lungo e magro com’è. Iancu tira giù il finestrino e dall’alto della cabina guarda dritto negli occhi Gideon. Lo guarda con intensità. No, lo guarda in un modo diverso, che Gideon cerca nella memoria finché non lo trova negli occhi di suo padre, moltissimo tempo fa, prima di morire. Suo padre lo guardò senza dire niente, come niente dice Iancu ora. Ma lo sguardo è lo stesso e sembra voler dire: non aver paura.
Un’auto suona il clacson per passare e il camion parte. Gideon rimane a guardare il braccio nudo di Iancu e la mano che lo saluta. Poi lo sente urlare con gioia, verso di lui, qualcosa che non capisce: “Noroc și sănătate, băiatule!




5.

La quinta ora.


La quinta ora comincia con Gideon che rientra nell’aria condizionata del supermercato e trova Sabrina sotto la scritta “informazioni”, che lo guarda storto.
“Vi siete fatti anche una birra già che c’eravate?”
Gideon la guarda perplesso. Ma Sabrina insiste: “Sei stato fuori un’ora. Ho capito che non c’è tanta gente, ma io ho bisogno di te qui!”
“Ero fuori per camion. Ma successo qualcosa?” chiede Gideon.
“No” risponde Sabrina, “non è successo niente, ma non puoi sparire così. Non si sa mai.”
Gideon ci rimane male. Non gli era sembrato di essere venuto meno al suo dovere, ma certo, a pensarci bene però forse un po’ sì. Lui deve stare dentro, non fuori. Per questo guarda Sabrina e le chiede scusa.
“Okay” risponde lei, senza nemmeno guardarlo negli occhi.
I due stanno lì, in silenzio, tra i ti-tic delle casse e qualche vecchietto rimasto a Milano e che viene a prendere il fresco.
Però Gideon non capisce. Sente che Sabrina un po’ si agita accanto a lui. Si volta ancora una volta a guardarla e lei non si trattiene. Comincia a ridere che sembra una ragazzina, talmente divertita da sembrare innamorata.
“Sei troppo serio!” dice, “Troppooo!! E fatti ‘na risata ogni tanto! Che vuoi che succeda qui... se succede qualcosa, ti chiamo!...”
Gideon sorride, un po’ perché deve e un po’ perché lui è così, ma non sa se ne ha voglia.
La cosa che vorrebbe davvero, e questo lo sa con certezza perché lo sente nel cuore, è stare ad aspettare sulla battigia di Prampram le barche che tornano dal mare con poco pesce, avvolte nella luce dell’alba che disegna sulla sabbia ombre color limone.
Aiutare a scaricare le casse, ridere un po’ con i pescatori, per poi tornare a casa.

CAROL

INT. - NEW YORK - RISTORANTE SAM MERROW - GIORNO
Carol e Therese entrano nel ristorante.
Accompagnate da un cameriere di cui vediamo solo le mani, si siedono una di fronte all’altra.
Il ristorante è in penombra e i tavoli sono illuminati da piccole abat-jour bianche.
CAROL
Io prenderò la crema di spinaci con le uova in camicia.
Il cameriere intanto porge i menu.
CAROL
E un martini secco con un’oliva.
Therese apre appena il menu ma, forse a disagio, dice:
THERESE
Lo stesso per me.
CAMERIERE
Da bere o da mangiare?
THERESE
Entrambe le cose. Grazie.
Carol prende una sigaretta guardando negli occhi Therese, come se non ci fosse altro da vedere al mondo. Poi chiede:
CAROL
Sigaretta?
THERESE
Sì, grazie.
Carol fa accendere Therese che butta fuori il fumo senza sapere bene come si fa. Un sax suona piano in sottofondo e tu spettatore sai - perché lo hai visto prima - che fuori piove.
Poi Carol chiede a Therese:
CAROL
Allora, che cognome è Belivet?
THERESE
E’ Ceco. E’ stato cambiato. Prima era...
CAROL
Molto originale. E il suo nome di battesimo?
THERESE
Therese
CAROL
Therese? Non Teresa?
THERESE
No.
CAROL (come se nominasse Dio)
Therese Belivet. E’ adorabile.
THERESE
E il suo?
CAROL
Carol.
THERESE (ripete tra sé)
Carol.
Le braccia del cameriere entrano in scena.
CAMERIERE
I due Martini secchi.
Carol e Therese brindano.
Therese si guarda intorno. Carol no, lei guarda negli occhi Therese.
THERESE
Così pensava fosse stato un uomo a riportarle i guanti.
CAROL
E’ vero. Pensavo fosse un uomo del reparto sci.
THERESE (sorridendo)
Mi spiace.
CAROL (toccandosi i capelli)
No, ne sono felice.
Dubito molto che sarei uscita a pranzo con lui.
THERESE
Il suo profumo...
CAROL
Sì?
THERESE
Mi piace.
CAROL
Grazie.
Me l’ha comprato Harge, anni fa.
Prima che ci sposassimo.
Lo metto da allora.
THERESE
Harge è suo marito?
CAROL
Bè, tecnicamente. Stiamo divorziando.
THERESE
Mi spiace.
CAROL(cont'd)
Ma no... 
Carol guarda Therese. Qualcosa nel suo sguardo ci fa desiderare di essere seduti con lei.
Poi continua.
E tu... abiti da sola, Therese Belivet?
THERESE (ridendo)
Sì! Bè, c’è Richard.
Vuole venire a stare con me. Vorrebbe sposarmi.
CAROL
Capisco.
Ti piacerebbe sposarlo?
Therese, confusa, guarda Carol. E’ come se si sentisse fuori luogo.
E infatti dice:
THERESE
So a malapena cosa ordinare per pranzo.

Questo è il primo di una serie di dialoghi magnifici che troverete in CAROL, tratto dal romanzo di Patricia Highsmith.
L'omosessualità non c'entra niente, anzi rischiate di distrarvi. Come nel precedente - bellissimo - film di Todd Haynes "Lontano dal paradiso", ci vuole una piattaforma forte per raccontare. L'ha fatto anche Benigni ne "La vita è bella": l'olocausto non c'entrava nulla. Era un contesto , il più terribile, per mettere alla prova l'amore di un padre per suo figlio. Il cinema è fatto così: quando piove, diluvia.
Anche qui Haynes ci fa uscire dal politicamente corretto, col quale non si dice mai nulla di sensato, e ci fa andare al nocciolo del problema: cos'è l' Essere Umano di fronte alla passione ingovernabile, ancor più quando "proibita"? E' (anzi, siamo) piccoli, indifesi, fragili e vulnerabili. Quindi, Umani.
Ascoltarsi, conoscersi, avere paura, e poi (magari!) avere coraggio, seguire ciò che sentiamo e non ciò che pensiamo o crediamo "corretto", è il tema di questo bellissimo film, che ho avuto il privilegio di non vedere da solo, ma accanto alla persona più cara. Essere felici, o almeno il più possibile vicini all'idea che abbiamo di noi, è il compito di tutti. Se così fosse non staremmo a perdere tempo e tragedie dietro le guerre, la sfiducia e la diffidenza.
Remember: se non funziona, divorziate. Mi raccomando!

LA ISLA MINIMA


Diciamo subito una cosa che posso affermare mostrando le prove: se "La Isla Minima" - premio Goya, tra l'altro - fosse stato fatto in "Itaglia" non solo non sarebbe mai stato fatto, ma non sarebbe nemmeno mai stata letta la sceneggiatura a meno che non l'avesse scritta un qualche parente. Invece siamo in Spagna, vivaddio; cioè fuori da qui, dove quasi ovunque tutto appare non semplice, però normale. Guardando La Isla Minima già dai titoli affascina. La terra come quadri, l'acqua che disegna forme cerebrali e già questo è una metonimia della sceneggiatura. Poi ti immergi in questo posto umido, tanto che nel cinema non ti togli nemmeno il maglione, ed entri in un noir accompagnato dalle facce dei due bravissimi protagonisti detective per scoprire chi uccide, e perché. Insegui con loro una luce nella notte su un'automobile che corre tra l'acqua e il fango, prendi cazzotti improvvisi, li accompagni nello scricchiolio di una porta chiusa dove una mano si appoggia, la apre piano, e...
Cos'è un noir? Un noir è un meccanismo ad orologeria che ti porta lontanissimo dall'inizio per rivelarti che alla fine la risposta é all'inizio. Soprattutto: un noir serve a capire che Hitchcock aveva già detto tutto, ma in fondo chi se ne frega? Un film è quella (bella) cosa che viene prima o dopo una pizza con gli amici. E allora viva La Isla Minima e i suoi autori che sanno che la bellezza non è mai inutile, e va mostrata, studiata, voluta e speriamo anche prodotta, e gli altri lo fanno, mentre ai denti cariati del cinemino italiano rimane attaccata una sola, definitiva domanda: quo vado?

Il Ponte Delle Spie

Ieri sono andato a vedere il Ponte delle Spie (all'Odeon- the space cinema. MAI PIU'! Intervallo e popcorn...) 
E' puro spettacolo di altissima classe. Non ci sono trucchi, è tutto mestiere, è tutto pensiero. 
Guardandolo si vede "il lavoro". E mi è piaciuto perché non sono più abituato a vederlo, il lavoro. Nemmeno nel mio di regista pubblicitario, dove ormai non distinguo più un regista dall'altro perché sono tutti uguali. Qui ci sono personaggi che entrano in scena grazie a movimenti di camera che li scoprono. Qui si va da un primo piano a un totale gigantesco in un unico piano sequenza. Qui la luce è attrice e scrittrice. Una lampada che si spegne sul viso di Tom Hanks (immenso, ma si sa) "significa" qualcosa, è parte della storia. Qui si precipita da un U-2 e penserete, seduti sula poltrona, "chissà se mi salvo?". La storia vi appassionerà senza cambiarvi la vita, intendiamoci. Quella, se volete, ve la cambiate da soli. Ma perdersi nello sguardo intenso di un'attrice che è poco più che una comparsa eppure bravissima anche solo per una scena, mi ha ricordato che il cinema esiste ed è un mestiere e a volte sfiora la grande letteratura di genere. Ne avevo perso il ricordo a furia di immagini tutte uguali. Io sono uscito contento, mentre nella sala accanto mettevano in scena guerre. Stellari, dicono.

mercoledì 17 giugno 2015

Mario.

Si girò come per cercare qualcuno, ma non c'era nessuno e lui lo sapeva. Sapeva di essere solo. L'aveva anche voluto. L'aveva cercata, la solitudine, quasi fosse uno stato assoluto, purissima come l'acqua un attimo prima di lasciare la montagna e diventare fiume.
Lui, fiume lo era stato e aveva navigato, con tutto quello che comporta: una destinazione, o destino come dicono più propriamente gli ispanici, una partenza, del coraggio, l'intraprendenza e la lungimiranza. E infine la pazienza, quella che ci vuole per condividere la vita invece che berla tutta d'un fiato, e da solo, come aveva sempre voluto fare.
Quindi girò la testa e vide la corsia vuota e nessuno che lo guardava, o che gli parlasse o cercasse. Nessuno che lo volesse davvero.
Ricordò i fotografi, sul tappeto rosso della sua esistenza. I loro flash nelle notti veneziane. Ricordò i sorrisi, la vita dolce, le trattorie. Ricordò Miranda e la sua pelle bianca, il suo abbraccio umido, peloso e caldo, attorno a quello che era stato il suo pene, allora turgido e "enorme", come gli diceva lei arrotando la erre moscia.
Ricordò il desiderio di metterla incinta e tutta la vita che chiamava con sè quel desiderio, indipendentemente dal fatto che poi, lui, padre non fu mai.
Ricordò le luci, gli ottomila, i cinquemila watt. I "bruti" sparati a giorno su una distesa di case mentre lui, forte, presente e vivo urlava azione! e tutto si muoveva di conseguenza.
Vide il buio delle sale di montaggio. Gli aeroplani presi, i passaporti scaduti. Quella sensazione di esistenza che ti da l'ebrezza di un barbaresco mentre ti scivola in gola.
E il suo sorriso dolce, gli occhi stupiti, una margherita in bocca e il cuore di ragazza, un pomeriggio in cui rimase lì a guardarla giocare con un cucciolo di cane che le aveva regalato per avere il coraggio di dirle che era vecchio, "sono vecchio Margherita, non ti posso portare con me, non più".
Quel giorno capì che la vita è saper rinunciare senza malinconia. E' il qui e ora qualsiasi costo abbia.
E' il coraggio di perseguire un desiderio, perché non esiste altro se non quella fatica utile.
Era stata una vita, la sua. Non una farsa. E oggi, che abitava la corsia quasi dimenticato, capì che non ne aveva più voglia e che in quella condizione non c'era dignità, né rispetto per sé.

Il volo fu facile e brevissimo.

I giornali parlarono di incidente, ma poi dissero la verità e i suicidi vanno all'inferno.

Ma l'inferno non esiste, a meno che tu non passi la vita a nasconderti.